di Salvatore Marchese
(La prima parte dell’intervista è pubblicata in Resistenza e Futuro, Anno XIX, n. 2, 3 agosto 2018)
Alcune cose sia voi dei centri sociali che noi dell’ANPI ci sentiamo dire spesso, una è la famigerata definizione «Il fascismo degli antifascisti», è una frase che sappiamo essere travisata o strumentalizzata, noi ne conosciamo il vero significato, ma non l’opinione pubblica ed è in fondo diventata un modo per zittire chi parla di antifascismo.
Noi ce la sentiamo dire tanto e ce la siamo sentita dire negli anni da voci che arrivavano da sinistra: questo è il problema principale quando parliamo di questo tipo di affermazioni. Se arrivasse da destra, lo si capisce: sarebbe una posizione strumentale ma comprensibile. Io credo purtroppo che questa affermazione, per quanto falsa, abbia davvero fatto presa e credo che questo dipenda anche da un abbandono da parte della sinistra istituzionale dell’antifascismo come precondizione, come argine. Credo che trent’anni di sinistra neoliberale abbiano contribuito alla demolizione di ciò che prima era una precondizione. Io sono certo dei centri sociali ma qui ti stupisco e cito Pertini che in una sua famosa intervista sta snocciolando quella che poi è un’altra arma di distrazione di massa che è il famoso detto di Voltaire, secondo cui, cito liberamente, sono disposto a dare la mia vita, affinché il mio avversario possa esprimere la sua opinione, al che l’intervistatore gli chiede: «Ma anche i fascisti?» E lui risponde che no, che con i fascisti questa cosa non si applica, perché i fascisti sono semplicemente fuori dal gioco democratico, perché il fascismo non è una fede politica, è la negazione di qualsiasi fede politica, è prevaricazione. Ecco io credo che non solo questa fastidiosa affermazione ma tanto della fascistizzazione del lessico sociale dipenda comunque da una scelta culturale della sinistra neoliberale che ha contribuito a ciò in maniera sostanziale.
Proviamo allora a restituire verità al pensiero di Pasolini e a quella che in realtà è una definizione aggiunta ex post a un suo articolo in «Scritti corsari», Pasolini aveva in qualche modo individuato un paradigma: un potere che sfrutta certi disordini di piazza come distrazione di massa ma che in realtà tollera, per cui vedeva nell’antifascismo istituzionale un antifascismo di facciata a volte usato per «rifarsi una verginità antifascista […] ma, nel tempo stesso, mantenendo l’impunità delle bande fasciste». Come applicheresti o riaggiorneresti questo paradigma oggi? Tu hai parlato di una sinistra che, usando altre parole, ha delegittimato un certo tipo di protesta in questi anni, a partire da Genova sicuramente.
Da un certo punto di vista resta il problema di un antifascismo io credo puramente celebrativo e che in qualche modo rimanda solamente a un culto della morte partigiana ma non vuole affrontare la necessità di produrre una vita antifascista più che un culto della Resistenza, pur ovviamente fondamentale a livello della memoria. Ma la memoria va riattivata. Secondo me rimane questo problema di un antifascismo celebrativo e purtroppo anche questo si sta indebolendo, perché non trova più le sponde istituzionali che una volta invece trovava. Come si usa oggi la violenza di piazza? Francamente non te lo so dire: se penso all’espressione «fascismo dell’antifascismo» riportato alla piazza, non vedo oggi una strategia cosciente o politica legata alla strumentalizzazione delle piazze. Forse ci sono troppe poche piazze. Questo lo vedo come un limite e come un problema dell’oggi, anche se nell’ultima fase della campagna elettorale, in seguito soprattutto all’attentato di Traini a Macerata, c’è stato fortunatamente un risveglio sociale antifascista. Abbiamo visto tante piazze, tante pratiche, da quelle più istituzionali a quelle più militanti. Ecco io credo che oggi non si debba correre il rischio di dividere le piazze buone da quelle cattive, i movimenti buoni da quelli cattivi, perché questo è stato sempre un altro gioco strumentale o alla repressione o a chi è più interessato a mantenere lo status quo che non a trasformare la realtà.
C’è una parte del paradigma di Pasolini che ancora manca e cioè che individuava il vero o nuovo fascismo nel capitalismo italiano dell’epoca, qualcosa di meno avvertibile da parte dell’opinione pubblica ma ugualmente pericoloso. Oggi siamo in pieno neoliberismo…
Io credo che ci siano diversi livelli preoccupanti di un certo ritorno del fascismo. Al di là di un altro mantra, quello di dire: non serve più l’antifascismo perché il fascismo è morto, basta dare un occhio all’Europa per capire che dall’Est Europa fino alla Francia dove il Front National ha un consenso straripante ed è stato sostanzialmente bloccato da un’alleanza tra la destra e la sinistra, non si può più affermare che non esiste un problema fascismo in Europa. Ciò detto ci sono appunto diversi livelli: in Italia assistiamo comunque ad un preoccupante ritorno delle formazioni neofasciste, lasciando perdere che poi fortunatamente il dato elettorale non dia ragione a Forza Nuova e a Casapound. Rappresentano comunque un problema nelle città, nei quartieri dove sono insediati. Rappresentano un problema di «agibilità di strada», perché se io sono in un quartiere dove c’è una sede di Casapound e sono un non bianco, un nero, una persona queer, un gay, se sono conosciuto come una persona di sinistra, è banalmente un problema girare per strada.
E poi c’è un livello di assunzione di un vocabolario, di un immaginario neofascista a livello per esempio della destra istituzionale che sarebbe stato impensabile dieci anni fa e questo proprio perché l’antifascismo come argine istituzionale che non era certamente sufficiente ma era necessario, è caduto e oggi Salvini si permette di dire quello che dice, si permette di giurare sul Vangelo in piazza e tutto questo armamentario, questa retorica, questo immaginario che si richiama al fascismo e ottiene risultati elettorali probabilmente andando a raccogliere il consenso che altrimenti sarebbe andato sulle piccole formazioni neofasciste. C’è poi un livello che a mio avviso è ancora più preoccupante che è quello della fascistizzazione del linguaggio sociale a cui assistiamo soprattutto nell’infosfera: ciò che si può scrivere su Facebook, il livello di violenza verbale, di minaccia, di linguaggio della prevaricazione fascista che oggi vediamo circolare sui social è qualcosa di veramente preoccupante.
Come ANPI abbiamo vissuto non solo come un problema ma come uno scandalo inaccettabile il fatto che formazioni neofasciste abbiano potuto presentarsi liberamente alle elezioni. Abbiamo quindi lanciato la campagna di firme «Mai più fascismi» per far semplicemente applicare le leggi dello Stato italiano. Dal tuo punto di vista è uno strumento praticabile ed efficace? Vanno messi fuori legge i raggruppamenti neofascisti? Quali sarebbero i risultati o le conseguenze?
Per me ogni strumento è lecito e necessario. Anche qui non vorrei fare una classifica delle pratiche antifasciste: ci può stare la raccolta firme, ci può stare l’antifascismo più militante. Io credo che quello che sia importante è capire una cosa, che oggi chiedere che le leggi dello Stato siano rispettate non ha utilità se questa richiesta non ha una base sociale forte. Se non c’è di nuovo una presa di coscienza complessiva e generale, di massa, a livello della società, che produca un rapporto di forze tale da poter far poi leva sulla dimensione legale e arrivare allo scioglimento delle forze antifasciste, alla loro messa fuori legge.
Tu pensa che al paradosso appunto di questi fascisti che si presentano alle elezioni e le leggi dello Stato e la Costituzione le hanno utilizzate per poter occupare moltissime piazze, proprio perché in campagna elettorale una forza elettorale non deve neanche più passare per un permesso dalla questura o del prefetto. Insomma sfruttando la Costituzione nata dalla Resistenza antifascista che non voleva più la censura fascista nei confronti di chi dissentiva, loro oggi usano strumentalmente le leggi e la Costituzione democratiche. Non solo si presentano alle elezioni, ma il fatto di presentarsi gli garantisce l’agibilità delle piazze.
E per fortuna è stato un momento in cui si è creato un fronte antifascista un po’ più largo… Speriamo diventi una pratica normale. Torniamo alla questione dei livelli in cui possiamo individuare il fenomeno neofascista: abbiamo parlato di un fascismo da piazza, più violento, più visibile, immediatamente riconoscibile anche da un’opinione pubblica spesso distratta, poi abbiamo parlato di un ritorno di fascismo a livello europeo, ma in alcuni paesi dovremmo parlare di neonazismo, c’è poi sicuramente un altro fronte, quello istituzionale. Ovvero il fascismo lo abbiamo mai eliminato dalle istituzioni? Si è parlato spesso di “resistenza tradita” e ci potremmo chiedere se dal Dopoguerra ad oggi abbiamo mai eliminato la presenza fascista all’interno delle istituzioni italiane.
Indubbiamente l’Italia ha un substrato fascista che non si è mai esaurito, basti pensare al MSI nel dopoguerra, in parlamento sedevano dei parlamentari dichiaratamente fascisti, non neofascisti ma propriamente fascisti, c’era gente del calibro di Pino Rauti che aveva scritto saggi sulla superiorità della razza bianca. In tempi più recenti la strategia della tensione, tutto l’utilizzo del fascismo da parte degli apparati dello stato, l’utilizzo strumentale della violenza fascista e oggi bisogna dire che purtroppo la cultura fascista permea le forze dell’ordine. Chi come me purtroppo ha qualche esperienza di questura, di commissariati, perché ogni tanto ci finisce, ci va a ritirare una qualche denuncia, sa che in taluni commissariati fanno bella mostra di sé stendardi della X Mas, bandiere della Repubblica di Salò e tutto questo armamentario. Una cosa a cui non pensa chi ha la fortuna di non dover frequentare le forze dell’ordine, ma è così.
Per l’opinione pubblica in qualche modo risulta più “rispettabile” una posizione del genere, piuttosto che un antifascista in piazza. Possiamo forse individuarlo come un altro problema…
Posso anche dire senza tema che venendo dai centri sociali noi oggi siamo in un momento in cui c’è un consenso molto basso intorno a quello che facciamo e a ciò che rappresentiamo. Ma questo è in linea con ciò che accade in Europa. Oggi, bisogna dirselo senza disperare e anzi cercando di costruire sempre con gioia percorsi alternativi, però siamo in una grande momento di ritorno e di legittimità dell’universo politico fascista. In Italia la parabola della lega dimostra un grosso ritorno al nazionalismo. Ciò che ha fatto Salvini è stato politicamente qualcosa di efficace dal suo tremendo punto di vista: trasformare cioè una Lega che era sempre razzista, piuttosto nei confronti dei meridionali che non dei migranti, da federalista a nazionalista aggiornando il suo razzismo che prima era nei confronti del Meridione e adesso, utilizzando strumentalmente il fenomeno migratorio, nei confronti dello straniero, del diverso, del nero, del migrante etc etc. E visti i risultati elettorali ci ha visto giusto. Questi sono elementi che ti danno la misura di un ritorno all’arsenale fascista. Mi ricordo che nei primi anni ’90 Bossi, politico che noi abbiamo sempre fieramente osteggiato, diceva che la Lega è antifascista, mai con i fascisti, quando gli si proponeva un’alleanza con AN o qualche partito della destra. Diceva di provenire da una famiglia partigiana. C’era tutto un immaginario che lui coltivava, ovviamente distorto ma assolutamente antinazionalista.
Era a tuo parere una cosa davvero sentita o soltanto un “ammiccamento”, visto che si era tirato dentro un Borghezio?
Ovviamente non gli dai nessun valore sostanziale, nessuna persona di buon senso gli ha creduto. Però vedevi che a livello di parole era un discorso apertamente antifascista. Naturalmente strumentale, pervertito se vogliamo, però lo faceva. Oggi la Lega è paragonabile a un partito di estrema destra europeo che è più dichiaratamente fascista: la Lega conserva il nome, ma la sostanza è oggi molto diversa dalla Lega degli esordi.
In effetti questo va concesso ai centri sociali del Nord Est: l’insistere da subito e continuo su certe caratteristiche della Lega. L’avete in qualche modo attenzionata, attaccata in tutti questi anni, mentre da parte istituzionale si è accettata. Si è accettato il razzismo che pur esprimeva da subito. Il leghismo è comunque una forma di fascismo? Il problema che si pone da parte di chiunque si consideri antifascista è se vada combattuta solo politicamente, se abbia cioè legittimità istituzionale un partito che si è proposto fin dall’inizio con istanze dichiaratamente razziste.
Io se penso a chi oggi dovrebbe avere legittimità istituzionale, pensando a ciò che dicono o fanno, mi viene in mente che sono molti altri che non dovrebbero averla. Penso a un Minniti, che nel PD ha messo in campo delle politiche sulla sicurezza e politiche immigratorie che sono più a destra della Bossi-Fini. Minniti è espressione di un governo di centro-sinistra ed è dal nostro punto di vista responsabile di migliaia di morti in mare, di accordi con la Libia che di democratico e umanitario non hanno nulla. È uno che ha fatto un decreto sicurezza che ha chiuso gli spazi di agibilità democratica in questo paese, è uno che ha un’idea della gestione delle città assimilabile a quella di uno sceriffo, che vuole espellere la povertà dalle città, chiudere gli spazi ai migranti e ai poveri, che ha praticato fermi preventivi durante le manifestazioni. Quindi se mi chiedi chi deve o non deve avere agibilità politica, ti direi che sicuramente la Lega non dovrebbe averla, ma non dovrebbe averla neanche certo PD dal mio punto di vista. Però il problema della legittimità politica deve essere posto a partire dai rapporti di forza: se non è la società che produce un rapporto di forza tale per cui si costringe la politica ad andare in un’altra direzione, ci terremo queste mostruosità. Penso, poiché ci parliamo fuori dai denti, che il caso della manifestazione realizzata dai movimenti a Macerata dica molto del ruolo ambiguo se non vergognoso della sinistra istituzionale sul piano dell’antifascismo. Dopo che Traini ha sparato, c’è stata una serie di prese di posizioni vergognose da parte della destra ma anche la sinistra istituzionale si è trovata del tutto balbettante. Tant’è che poi dal PD è venuto quel diktat imbarazzante a tutta la rete di associazioni che afferiscono a quell’area a non andare a Macerata in manifestazione. Mi sento di dire che anche la direzione nazionale dell’ANPI abbia sbagliato a seguire il PD, come ha sbagliato la CGIL. Per fortuna molti circoli di base hanno invece disobbedito e in quella piazza c’erano. Questo però dà la misura dell’inadeguatezza e dell’abbandono da parte della sinistra neoliberale, sindacati e reti associative rispetto al terreno dell’antifascismo.
C’è senz’altro una sorta di paura ad invitare i cittadini a riprendersi le piazze. Su questo siamo d’accordo. Tu sai che la nostra sezione a Macerata c’era. Tutto ciò ci fa tornare alla questione su quale dovrebbe essere la pratica antifascista. Veniamo quindi ad un punto che tu hai toccato, secondo me molto importante: al di là di una eventuale interdizione per legge, dicevi che è una base sociale sufficientemente forte che dà in realtà legittimità e forza ad un cambio di registro. Sicuramente siamo in quella fase che Umberto Eco descriveva come “ur-fascista” per quanto riguarda l’opinione pubblica, in quanto applica per esempio una “memoria selettiva”: passano quindi certi messaggi che risultano semplificati, e quindi rassicuranti, riguardo a un certo passato di cui viene scelto ciò che fa comodo strumentalmente. Il problema è quindi ricostruire una base sociale cosciente, antifascista, capace di prendersi per esempio le piazze quando è necessario. In quale modo a tuo parere? L’ANPI per fare un esempio punta molto sull’istruzione, sul lavoro nelle scuole, ben sapendo che è un lavoro difficoltoso che non porta frutti immediati.
Anche in questo caso direi che ci sono diversi livelli: quello di piazza è quello di chiudere gli spazi il più possibile a queste manifestazioni di fascismo, qualunque sia la direzione da cui provengono e di farlo con intelligenza, di farlo anche con radicalità se serve. E senza grandi problemi dicendo la verità di cosa si vuole fare, credo che questo sia importante, anche tra tutte le componenti, tutte le diverse sensibilità dell’antifascismo. Quando abbiamo fatto la piazza a Venezia contro l’arrivo di Forza Nuova, era una piazza chiamata “dei centri sociali” e quando siamo venuti a parlare con voi dell’ANPI, non vi abbiamo detto bugie: abbiamo detto che se li fanno sbarcare alla stazione a Venezia, noi ci anteporremo a loro fisicamente, però se siamo tanti, probabilmente non c’è necessità. E così è stato. C’è stato, credo, un riconoscimento reciproco di diverse sensibilità, di diverse pratiche senza la scomunica. Credo certo che quello di ricostruire una cultura antifascista come fa l’ANPI sia importantissimo. Noi lo facciamo magari non nelle scuole, però lo facciamo anche nelle scuole, lo facciamo con i collettivi, con i centri sociali, con le nostre reti, lo facciamo “vivendo”, perché per noi l’antifascismo è uno dei caratteri della forma di vita che interpretiamo. Ne è una delle basi. Cerchiamo di farlo con intelligenza e radicalità, ma non ci siamo mai preoccupati o fatti scoraggiare nemmeno quando critiche forti arrivavano da sinistra o dall’associazionismo di sinistra che molto spesso ci dipingeva come dei violenti. Purtroppo devo dire che il momento storico che viviamo ci ha dato ragione: se forse tutti ci fossimo un po’ più ricordati di non accantonare l’antifascismo – perché è faticoso da praticare, perché è brutto doversi relazionare con queste realtà – però forse oggi saremmo in una situazione sociale migliore. C’è anche stato il corrispettivo dal punto di vista dei percorsi di istruzione, di come viene insegnata la storia a scuola, ecco il corrispettivo sull’istruzione del neoliberismo della sinistra è stato l’abbandono del sapere di parte. Ormai si pensa che il sapere sia neutro e debba essere neutro: noi con Foucault diciamo che il sapere non è mai neutro, quando si presenta come neutro è perché in qualche modo è organico allo status quo, è organico ad una conservazione in questo caso del capitalismo neoliberale. Quindi va ripresa una concezione del sapere che deve essere un sapere di parte, e la parte antifascista deve essere uno dei saperi fondanti. Qui non è nemmeno una questione di centri sociali o di movimenti, fino agli anni ’80 questo era patrimonio collettivo, di tutto l’arco istituzionale, mi viene da dire anche della destra liberale, non solo della sinistra. Questo non c’è più e va recuperato: quindi è importantissimo fare un lavoro sulla memoria, ma non solo sulla memoria della Resistenza, della Seconda Guerra Mondiale e del Fascismo, è necessario fare un lavoro sullo statuto dei saperi oggi in questo paese. Lo si fa dotandosi di strumenti che possono essere vari: dalle assemblee nelle città, ai centri studi, alle pubblicazioni, allo stare nelle scuole ecc.
Inoltre quando c’è stato un riconoscimento reciproco (tra movimenti antifascisti più istituzionali e non), non si sono verificate le paventate violenze nelle piazze: è sicuramente un punto su cui riflettere da entrambe le parti. Vorrei a questo punto che provassi a descrivere a una persona che non ha mai visto, vissuto, praticato un centro sociale che cos’è. Ti potrebbe sembrare una domanda sciocca, ma se pensi come in questi anni il messaggio che è passato è “non andate nelle piazze, è pericoloso, state a casa”, tanto più frequentare centri sociali, usati come una sorta di babau. Certo le realtà dei centri sociali sono tantissime, se solo pensiamo al nordest per esempio, ed è un fenomeno radicatissimo. Eppure c’è un rifiuto di conoscerlo.
Da cui l’estrema destra ha anche imparato tra l’altro.
Ecco, ti chiederei di presentarlo pensando anche a come sono cambiate le pratiche dei centri sociali in questi anni: se devo ricorrere alla mia memoria personale, da quando ero ragazzino ad oggi, credo che ci sia stata anche una vera e propria evoluzione, ma ti chiedo conferma.
Dire che cos’è un centro sociale non so farlo, posso dire perché ho scelto di stare in un centro sociale e l’ho fatto perché a vent’anni non facevo attivamente politica, ero genericamente di sinistra, ascoltavo i 99 Posse, sono finito a Genova al G8, non per caso ma appunto come centinaia e migliaia di altre persone non militanti sono finito là, ho vissuto quella piazza, ho capito sulla mia pelle in quelle giornate che cos’è lo Stato, che cosa può essere lo Stato, e dopo Genova mi sono ritrovato in un dilemma esistenziale: cosa fare? Ritirarmi? Provare a vivere elaborando la sconfitta e dimenticando o trovare una reazione, una reazione a quel tipo di violenza, fascista dal punto di vista della violenza messa in piazza dallo Stato contro i manifestanti, o trovare una reazione che doveva essere collettiva. Mi sono guardato intorno e non ho avuto dubbi, non c’erano partiti, non c’erano sindacati, non c’erano associazioni che fossero, a mio avviso, all’altezza di farmi trovare una risposta, un tessuto esistenziale in grado di costruire una risposta a quello che avevo vissuto. Ho trovato nei centri sociali, per me, l’unico punto di approdo possibile. Da lì ho iniziato, sono passati vent’anni, ho cominciato prima a frequentarli: prima li conosci come luoghi di socialità, dove si sta insieme, si ascolta della musica – una socialità che ovviamente non fa mistero della propria parte politica, una socialità non commercializzata, se vogliamo alternativa rispetto ai modi e ai luoghi della socialità – poi da lì conosci, inizi a impegnarti in tutti quelli che sono i vari ambiti di lavoro dei centri sociali: dall’università, perché allora ero ancora un universitario, all’occupazione di case, impari degli aspetti delle città che non conoscevi, per esempio a Venezia attraverso l’occupazione di case uno impara a capire che c’è ancora un tessuto sociale vivo, ci sono ancora dei modi di vivere la città che sono alternativi o controegemoni rispetto allo spopolamento cittadino, al turismo di massa. Allora vedi famiglie, giovani, migranti assieme che non solo occupano le case, ma lo fanno a viso aperto, producono delle iniziative di quartiere, fanno città, fanno legame sociale. E questo in una città come Venezia per me, da non veneziano, da veneziano acquisito, è stato molto bello vedere l’altro uso della città che avviene attraverso i centri sociali. Ci sono i progetti: noi abbiamo messo su nel 2007 partendo da un’occupazione le Sale Docks, uno spazio legato all’intervento culturale, che uno non direbbe che possa essere emanazione dei centri sociali, ma così è. Certo che noi scontiamo il fatto che è difficile leggerci oltre l’immagine che i media danno di noi, oltre la radicalità di piazza che mettiamo in campo, io credo legittimamente, con intelligenza, perché senza ribellarsi, senza mettere in campo pratiche radicali sarà difficile cambiare la situazione e lo sarà sempre di più con i tempi che corrono. Certo scontiamo un immagine stereotipica di quello che siamo, ma siamo quello che facciamo in piazza con orgoglio e siamo tanto altro. Dalla cultura all’occupazione di case, alle lotte sul terreno dell’ambiente e della giustizia climatica, a Venezia penso al Comitato NO Grandi Navi etc etc. C’è una ricchezza vasta, i centri sociali non sono solo uno spazio, sono anche questo tipo di iniziativa politica.
Hai parlato, ed è credo da sempre il punto di partenza dei centri sociali, di luoghi di socialità, la società in cui viviamo è sempre stata una società che non ha creato luoghi di aggregazione sociale, i centri sociali se li sono creati da soli, hai poi parlato dell’impossibilità di essere militante di un partito, di non aver trovato all’interno di un partito delle pratiche che ti soddisfacessero, ti chiederei quindi brutalmente che cos’è per te lo stato e che cosa dovrebbe essere.
Lo stato è un apparato che cerchiamo di combattere: a livello di apparato lo stato è la struttura del potere costituito, ciò da cui emana il potere costituito, ciò che sta nella difesa dei confini dello stato nazione: sono tutti elementi, il potere costituito e lo stato nazione, che i centri sociali in quanto movimenti cercano di abbattere, con alterne fortune. I centri sociali a cui appartengo io non sono mai stati legati all’ortodossia comunista, dunque lo stato non è quello che deve stare alla base di una rivoluzione proletaria, che deve governare la vita delle masse rivoluzionarie, ma è nella realtà una controparte. È chiaro che poi ci sono delle emanazioni dello stato, gli enti locali per esempio, con cui ci si trova a fare i conti, a volte in forma conflittuale, a volte in forma più dialogante, di ricerca di un dialogo.
Se mi dici lo stato, io quando penso allo stato, penso ai poteri costituiti, penso alle denunce che mi arrivano, penso agli arresti delle mie compagne, dei miei compagni. Penso anche alla proprietà pubblica che, dal nostro punto di vista e non ne abbiamo mai fatto un mistero, non è garanzia di una effettiva proprietà comune dei beni che gestiscono: la proprietà pubblica negli ultimi trent’anni di neoliberalismo si è molto privatizzata nelle forme di gestione , lo stato si è aziendalizzato, la proprietà pubblica, quando non si è direttamente privatizzata, è stata gestita come l’avrebbe gestita un privato. Da cui per esempio tutto il terreno di lotta sulla questione dei beni comuni e sulla distinzione tra proprietà privata, pubblica e comune, un terzo termine che i movimenti hanno provato a fare proprio negli anni scorsi a partire dal referendum sull’acqua nel 2011.
Poi c’è stata l’esperienza del teatro Valle e un tentativo da parte di Rodotà di trovarne una formulazione giuridica. Un esperienza senz’altro interessante. Ti avevo posto questa domanda perché viviamo in un’epoca in cui tutto sembra dover ridefinire una propria legittimazione e quindi la domanda “che cosa dovrebbe essere lo stato” o “che cosa possa pretendere un cittadino dallo stato” perché non si verifichi conflitto, diventa interessante. I centri sociali hanno senz’altro posto una questione: la realtà che vorremmo dobbiamo anche costruirla noi dal basso, nelle pratiche, e non semplicemente progettarla come farebbe un partito classico. Forse c’è ormai questo discrimine, non so se mi sbaglio.
Che cosa vorrei dallo stato o che stato vorrei? Vorrei uno stato che riconoscesse per esempio la dimensione della produzione comune, a partire dai temi del lavoro fino a quelli della socialità, dello spazio urbano, dei beni comuni etc. Vorrei questo tipo di stato e aggiungo un’altra cosa più legata all’attualità, vorrei uno stato non nazionalista, vorrei uno stato che riconoscesse i diritti dei migranti a un’accoglienza degna, stare in questo paese se lo vogliono, andarsene altrove se lo vogliono, vorrei uno stato che si facesse carico del reddito di cittadinanza. Dico questo perché il reddito di cittadinanza oggi è uno dei cavalli di battaglia del Movimento 5 Stelle, però non bisogna dimenticare che è sempre stato un cavallo di battaglia dei movimenti e dei centri sociali. Anche questa è una differenza tra la sinistra tradizionale e noi: la sinistra tradizionale ha un’impostazione lavorista (L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro), noi vorremmo una Repubblica fondata sul reddito, ma non il reddito di cittadinanza grillino che in realtà non lo è, ma è un tentativo di workfare, un tentativo attraverso un sussidio di disciplinare la forza lavoro a un regime di lavoro qualificato, di lavoretti, di precarietà continua, di controllo sociale. Noi vorremmo un reddito universale per tutti, non sostitutivo di welfare, che riconoscesse oggi che c’è un valore nella produzione e riproduzione sociale che è enorme, questo valore però è privatizzato. E quindi vorremmo un reddito universale che fosse in grado di retribuire questa messa al lavoro delle nostre vite, è chiaro che parliamo di un mondo a venire, di orizzonti. E bisogna essere in grado questi orizzonti di “giocarli” nella quotidianità, nella materialità del dibattito politico.
Giungiamo alla fine di questa lunga intervista: all’ANPI viene spesso imputato di limitarsi a cerimonie molto formali di ricordo e memoria e non andare olre a ciò. Rivolgo quindi a te la domanda di quale sia l’importanza reale della memoria, anche pensando che in fondo pure il mondo dei movimenti e dei centri sociali ha ormai dei riferimenti nella memoria, dei “compagni da ricordare”, Dax o Iaio e Fausto per ricordarne solo alcuni. Qual è l’importanza reale di non desistere nel tenere viva la memoria? Avrai inoltre sicuramente conosciuto dei partigiani, che cosa ha significato per te conoscerli e dialogare con loro?
Io sono originario di Cuneo, alle scuole superiori ogni anno almeno una volta all’assemblea di istituto veniva Nuto Revelli: lui era proprio un militare, quindi aveva questo aspetto assolutamente marziale. Era già piuttusto anziano negli anni ’90, però devo dire che, forse non capivamo tutto, forse non eravamo veramente attenti, e io ero uno di quelli che stava più fuori che all’assemblea, però questa presenza ci ha fatto immediatamente vivere una memoria inscritta nella carne, questo è fondamentale della memoria: quando la memoria è materia fredda, quando la memoria è solo materia di studio, è una serie di dati, di elenchi, è una memoria destinata probabilmente a non lasciare traccia nella soggettività di chi si confronta con essa. Quando la memoria è viva, anche se tu non lo senti, in qualche modo ti costruisce, ti tocca, ti rimane. Adesso i partigiani muoiono, come da noi stanno cominciando ad invecchiare le compagne e i compagni che hanno fatto non dico il ’68 ma anche gli anni ’70. Insomma costruire la memoria non come memorialistica, ma come elemento della propria vita.
Se posso imputare un limite all’ANPI, forse è proprio quello di fare un lavoro, ovviamente importante, ma in forme che sono un po’ ingessate e che, chi quella storia non l’ha vissuta, fa fatica a comprenderne il quid. Non è secondo me una questione di metodologia, ma di far vivere socialmente quella memoria. Come? Non puoi limitarla al 25 aprile, limitarla ai funerali dei partigiani, non puoi più affidarti alle istituzioni, non puoi più far finta che le istituzioni ne siano garanti. L’ANPI a mio avviso di questo deve prenderne coscienza. Non c’è più qualcuno che garantisce al posto dei singoli quel tipo di memoria, non c’è sponda istituzionale. A mio avviso è stato un demerito e grave limite della sinistra. Magari noi centri sociali non abbiamo la ricchezza culturale, una memoria così precisa come quella degli iscritti all’ANPI, però devo dire che quando un ragazzo o una ragazza sta con noi due, tre, cinque anni, quella persona diventa un antifascista. Magari non conosce con tanta precisione la storia, magari non si ricorda gli eccidi fascisti, magari non sa rispondere in un contraddittorio sul fascismo, molti ovviamente sì, però l’antifascismo è una forma di vita. Parlavo appunto della necessità di superare il “culto”, la memoria come memoria di un passato ma di rinscriverla nella quotidianità della vita di ognuno di noi. Oggi questo significa anche essere disposti a scontrarsi, perché il fascismo nella società c’è e chiudere gli occhi non lo eliminerà. Poi lo scontro non deve essere necessariamente fisico, a volte può esserlo, ma essere antifascisti oggi significa magari decidere che qualche amico non è più tuo amico, significa fare delle discussioni in famiglia, significa porre un discrimine.
Certamente però una pratica dell’ANPI è proprio quella di “combattere” a suon di documenti, grazie anche e soprattutto all’attività di istituti di ricerca storica presenti in moltissimi territori del paese, a Venezia l’Iveser, non è una lotta semplice ma necessaria. Concludendo davvero, dopo le tante domande che ti ho rivolto, è giusto che possa farne almeno una anche tu: quale domanda rivolgeresti all’ANPI?
Non ho una domanda in particolare da rivolgervi, quello che auspico è che, nella città in cui vivo e in cui siamo presenti, continui a esserci un dialogo e che non ci sia una preclusione reciproca. Da parte nostra non c’è: ci saranno posizioni differenti, pratiche e storie differenti, però credo che oggi, senza pensare che ci debba essere un “frontismo” a tutti i costi, bisogna ricostruire un tessuto sociale in cui l’antifascismo sia una costante. Adesso purtroppo o per fortuna non siamo più in campagna elettorale, quindi non abbiamo più Forza Nuova che vuole venire a fare un picnic a Venezia ogni due giorni, però non bisogna abbassare la guardia, bisogna costruire momenti comuni, costruire dialogo, imparare anche a stare dentro le diversità. Noi non abbiamo certo problemi con chi appunto lavora sui documenti: siamo una delle parti fondanti del Comitato No Grandi Navi, la sua forza sta nel fatto che c’è un parte che si dedica alle carte bollate, fa ricorsi al TAR e a Strasburgo, scrive libri bianchi sulla gestione del traffico e c’è una parte che blocca le navi con i barchini, che se serve “fa casino” e le due cose vanno assieme. Non ci deve essere una preclusione: credo che, se si parla a viso aperto, ci sia la possibilità e anche la necessità di produrre percorsi comuni.