A Venezia, il 25 aprile, è sempre festa doppia, peccato quest’anno sia caduta di domenica, e oltre a quella della Liberazione festeggiamo S. Marco, patrono della città. È usanza che l’uomo regali alla sua innamorata un “bòccolo”, cioè un bocciolo di rosa. Oggi è anche una splendida giornata di sole, quasi estiva.
Ogni anno, il 25 aprile, in giro per le calli del sestiere di Cannaregio, il quartiere più esteso della città e che occupa tutta la zona nord, circa dalla stazione dei treni fino a Campo SS. Giovanni e Paolo, quello con l’omonima, imponente, basilica gotica e il monumento equestre a Colleoni, tra le calli del sestiere, dicevo, si snoda il Percorso della Memoria, una via crucis laica in sette stazioni a ricordare alcuni luoghi tragici e alcuni uomini e donne morti nella guerra di liberazione dal nazifascismo. Morti per la libertà, come canta la canzone, una libertà diversa nella forma e nella sostanza da quella immaginata dal “Popolo” che oggi ne usurpa il nome in maniera abominevole, e dal capoccia di quel popolo, quanto di più simile a chi la libertà al paese l’aveva tolta, una prova che la storia non è maestra di niente che ci riguardi, come scriveva Montale, e meno che mai per noi italiani.
A Mogliano Veneto, il sindaco (leghista) “Bella Ciao” non voleva sentirla, ma avrebbe preferito “La canzone del Piave”, che ben poco c’entra con la Liberazione, è una canzone degli alpini e della prima guerra mondiale, gli alpini son simpatici ai leghisti, è probabile che li vedano legati al territorio, come il radicchio o gli asparagi, e così folcloristici quando ubriachi, così veneti, l’ho visto prima al telegiornale il tipo, la faccia intelligente alla Renzo Bossi e la stessa ignoranza portata con nonchalance, poi l’hanno suonata lo stesso “Bella Ciao”, e qui, nella stessa Venezia, la presidentessa della provincia Zaccariotto (leghista, ormai sono tra noi), non ha partecipato al tradizionale alzabandiera in Piazza S. Marco, con le autorità e tanto di picchetti e gonfaloni partigiani.
Sette fermate, sette luoghi, sette targhe alla memoria: Campo San Canciano: Bruno Crovato; Ponte dei Sartori: Luigi Borgato; Calle Priuli: Giuseppe Tramontin; Fondamenta San Felice: Ubaldo Belli; Calle Colombina: Piero Favretti; Campiello del Magazin: Augusto Picutti; Corte Correra: Manfredi Azzarita, ad ogni tappa ci si ferma, si ricorda, una tromba suona il silenzio, e il Coro 25 Aprile intona un canto partigiano, fino ad arrivare in Campo del Ghetto, dove avviene una breve commemorazione presso il monumento in ricordo della Shoah.
Mentre attraverso il ponte che porta in Ghetto, due poliziotti portano via un ragazzo che, uscito da non so che fogna, in pieno ghetto ebraico e in piena manifestazione antifascista ha fatto il saluto romano, ‘sto provocatore, lo portano via prima che lo prenda la gente e lo scaraventi in canale e mi spiace proprio l’abbiano raggiunto prima loro, era una bellissima giornata per volare in acqua, tanto più che una tale merda sarebbe sicuramente rimasta a galla.
Chissà se i leghisti sanno, quando in settembre calano sulla città in Riva dei Sette Martiri per la loro festa idiota, così vicina iconograficamente al nazismo per i suoi simboli, i suoi riti e il sempre pericoloso culto al Volkgeist, tanto più se quel popolo è un’invenzione, che i martiri di quella riva lo furono per un’ennesima vigliacca rappresaglia tedesca. Altra gente che morì per vedere poi, nella tomba, la terra sopra di loro calpestata da bandiere verdi e imbonitori mentecatti e parafascisti.
Poco distante dalla Riva suddetta, verso i giardini della Biennale, un altro segno ci ricorda verso chi siamo in debito.