3 AGOSTO 1944
In quei giorni dell’estate 1944 lungo l’allora Riva dell’Impero erano attraccati cacciatorpediniere e motovedette battenti la bandiera con la svastica. Nella notte dall’1 al 2 agosto, secondo la versione tedesca, era scomparsa una loro sentinella. Le autorità germaniche ritennero che si fosse verificato un “attentato” e ne addebitarono alla Resistenza la responsabilità. Ne seguì un’immediata rappresaglia. Vittime di questa spietata decisione furono sette detenuti politici rinchiusi da alcuni mesi nel carcere di Santa Maria Maggiore. Nel giro di poche ore furono scelti ad arbitrio di capi fascisti i nomi di coloro che, una volta consegnati ai tedeschi, sarebbero stati poi fucilati. Dal carcere di Santa Maria Maggiore e dalle “segrete” di Ca’ Littoria furono prelevati: Armellini Aliprando, Conti Gino, De Gasperi Bruno, Gelmi Alfredo, Gelmi Luciano, Guasto Girolamo, Vivian Alfredo. La loro sorte era ormai segnata.
All’alba del 3 agosto, alle ore 4.00, un gran numero di abitazioni civili comprese tra il ponte della Veneta Marina e Via Garibaldi fino a calle San Domenico vennero perquisite dai soldati tedeschi. Centotrentasei adulti, tra uomini e donne, furono costretti a portarsi nella zona adiacente al ponte della Veneta Marina – mani in alto e faccia al muro – in attesa che fosse impartito loro l’ordine di voltarsi. Altre trecentocinquanta persone, compresi i ragazzi, furono obbligate a raggrupparsi nella stessa località. Giunsero i condannati a morte. Lungo il tragitto erano stati confortati da don Marcello Dell’Andrea, cappellano del carcere di Santa Maria Maggiore, il quale aveva somministrato a sei di loro i sacramenti. Alfredo Vivian, che in passato aveva confidato ai suoi famigliari di “sentirsi cristiano a modo suo”, disse a don Marcello che “lui non era professante” e che chiedeva di essere capito. Sul posto erano stati eretti due pali. I prigionieri, legati fra loro, furono allineati su quel breve spazio. Vivian fu aiutato ad appoggiarsi sul fanale di destra, perché non si reggeva. Non era paura. A Ca’ Littoria i fascisti gli avevano bruciato i piedi. Un ufficiale tedesco lesse, di fronte alla popolazione presente, la sentenza di morte. In essa, tra l’altro, si diceva:”Il Comando Tedesco è venuto nella determinazione di applicare le rappresaglie di guerra, per cui in presenza vostra saranno adesso fucilate queste sette persone ree di atti terroristici, dopodiché tra voi prenderemo 150 ostaggi la cui sorte dipenderà dai risultati dell’inchiesta in corso”. Ultimi istanti di vita per i condannati. Don Marcello porse ai morituri il Crocifisso, che poi terrà levato in altro dietro il plotone di esecuzione. Un ordine. Alfredo Vivian gridò: “Viva l’Italia libera!”. Il fragore delle armi non riuscì a coprire la sua voce. Si spezzò la corda che teneva legati i condannati; i loro corpi rotolarono a terra. Poi il colpo di grazia agli agonizzanti. Erano le 6 del mattino.
Le cause che avevano provocato la morte di quel marinaio tedesco erano state di ben diversa origine. Nella notte dall’1 al 2 agosto a bordo di quelle navi si era festeggiato a lungo e un po’ tutto era finito in una solenne sbornia degli equipaggi. Gli abitanti delle case vicine furono tenuti svegli dagli schiamazzi fino a tarda notte. Durante quelle ore una sentinella ubriaca era caduta in acqua ed era affogata. Questo si saprà pochi giorni dopo l’avvenuta esecuzione, quando, ritrovato in laguna il corpo di quel marinaio, non verrà riscontrata su di esso alcuna ferita d’arma.
Così caddero questi nostri compagni per aver combattuto contro i fascisti e i tedeschi, per un’Italia libera e unita.
Vennero fatti assistere i residenti perché fosse di monito ad una zona, quella di Castello – per lo più abitata da operai arsenalotti – particolarmente ostile ai fascisti e ai nazisti. Proprio per il coinvolgimento della popolazione, il ricordo di questo eccidio è da sempre particolarmente sentito. La Sezione veneziana dell’Anpi venne chiamata “Sette Martiri”, così come a loro venne intitolata l’allora Riva dell’Impero.