Orazione per i Sette Martiri

Foto di Valentina La Gorga

Davanti a questi Martiri che ogni anno ricordiamo, dobbiamo, una volta di più, soffermarci sul senso del loro sacrificio, per coglierlo e rapportarlo all’oggi; considerare la loro opposizione a una organizzazione della società fondata sul pensiero unico, il sospetto, la delazione, l’odio per il diverso; e ancora: sul conformismo, sull’indifferenza e sul farsi valore dell’obbedienza cieca e totale, sul disinteresse per ogni autonomia di pensiero e sul disvalore di ogni posizione critica e di ogni dubbio: credere, obbedire, combattere.
E per stringersi a combattere c’è bisogno del nemico. E se il nemico non c’è, bisogna crearlo.

Pensiamo a cosa rappresentano oggi questi sette Martiri: sono la dimostrazione della brutalità di un potere cieco di fronte alle istanze dei cittadini.
Tanti esempi di questa brutalità abbiamo sotto gli occhi nelle cronache dei nostri giorni, anche recenti ed anche a noi molto vicine, in cui la volontà e le ragioni della popolazione locale vengono ignorate, derise, calpestate, sopraffatte da istituzioni arroganti, beffarde e violente. E succube di interessi economici distruttivi. Un potere economico che, come sempre, è dalla parte del più forte: lo vediamo nel Mose, nelle grandi navi in laguna, nei progetti faraonici sull’aeroporto, in quello della sublagunare che vediamo riaffiorare e nelle tante grandi opere devastanti e utili solo ai promotori e alla corte di politici che le sostengono. Progetti nei quali la sapienza e le argomentazione dei cittadini che pure la Costituzione invita a partecipare e a farsi sentire, vengono perseguitate e criminalizzate. A favore degli interessi di un capitale che dice lavoro e pensa profitto; quel capitale che volendo agire senza ostacoli, nel fascismo trova il suo storico riferimento.

C’è invece un vitale bisogno di una libera impresa sensibile ai bisogni sociali, che condivida e sostenga l’idea di una società resa più giusta anche col suo apporto; un’impresa che non pensi di realizzarsi nel suo avido vantaggio sconnesso dalla comunità cui appartiene e anzi spesso fatto a suo danno, che si lavi la coscienza del suo cinismo incolpando le inefficienze e le lentezza del controllo politico; c’è bisogno, all’opposto, di un’imprenditoria che, guidata dallo spirito sociale dell’articolo 41 della Costituzione, si faccia sostenitrice di quel vero progresso che è l’abolizione delle disuguaglianze.

Invece abbiamo intorno a noi, in uno Stato che ha progressivamente abbandonato il suo ruolo di fornitore di servizi essenziali, una società in cui cresce l’indifferenza verso la sorte dell’altro, anche il più vicino a noi, che vuole la sopravvivenza per merito, abbandonando l’idea che si possa far conto sull’aiuto dell’altro. Un contesto che ti rinfaccia che, se non ce la fai, sei un disadatto e bisogna dirtelo a muso duro, farsi un vanto nel chiedere la tua espulsione dal contesto. Diventare indifferenti non basta più, bisogna essere feroci, dichiararlo e fregiarsene pubblicamente come una nuova identità. Un’investitura che viene concessa dal nuovo profeta, untore della peste dell’odio.

Foto di Serena Ragno

Perciò, per il totalitarismo che non tollera le differenze e il dissenso, il modo migliore per annullarli è accorpare tutti in una classe unica di consumatori uniformati.

Proprio considerando le tante disuguaglianze della nostra società, nel commemorare oggi i caduti su questa riva 75 anni fa, come anche quelli di Ca’ Giustinian commemorati 6 giorni fa, non è ammissibile che si confonda pìetas e giudizio storico. Se la pietà verso i morti è un segno di civiltà, il rispetto per loro non può e non deve essere usato per legittimare e incoraggiare il riemergere e il diffondersi di un’idea infame quale è il fascismo. Se pure si assolvono gli uomini perché nella scelta difficile hanno obbedito a ordini superiori, con le stesse ragioni i mandanti e soprattutto le loro idee, devono essere condannati senza appello e condannati, di conseguenza, quanti, quelle idee, nel pozzo torbido del passato, vanno a recuperare.
Quanto fascismo ormai ci circondi, è evidente a tutti e basta una citazione che trovo chiarissima nella sua sinteticità: “Il fascismo è il risultato di problemi sociali a cui viene risposto con la creazione di nemici fittizi”.
Noi sappiamo che a questo si opponevano quei sette giustiziati, ognuno secondo le sue attitudini; per questo furono sacrificati come esempio per la popolazione.

Per noi, invece, sono l’esempio di quale disumana crudeltà realizzi la politica che fomenta e diffonde la paura, l’insicurezza, l’ebbrezza della giustizia fatta in proprio, il rifiuto del diverso e oggi, il cinismo dei respingimenti.
Ed è allora contro la rete della socialità che si rivolge la violenza dei proclami e dei provvedimenti della politica. Ma, dietro quel livore, è sempre più scoperta la strumentalità di questa ossessione; infatti senza rievocare ogni giorno il pericolo del nemico, il consenso crollerebbe.
Ecco allora quel decreto sicurezza che criminalizza la fragilità e sopprime la contestazione civile.

Ma, in parallelo, la diffusione della paura usa anche armi più sottili: l’insicurezza percepita, pur essendo soggettiva, finisce per valere più dei fatti, delle statistiche e dei numeri che dicono che l’Italia è uno dei paesi più sicuri. E’ un capovolgimento paradossale che, però, dal punto di vista della propaganda ministeriale, è necessario perché, mentre i numeri e i fatti non sono manipolabili, le percezioni possono essere indotte, modellate, instradate: basta una buona conoscenza delle tecniche comunicative, il supporto immancabile di media amici, la pubblicità commerciale, tutti a proporre in pieno accordo che è cittadino a pieno titolo solo chi può ostentare i simboli dell’alienazione consumistica, il suo buon diritto di identificare sé stesso con l’oggetto di culto. Suggestioni pervasive che ci fanno arrivare alla convinzione che chi è dentro questi scenari è un cittadino modello, gli altri sono da escludere.

Se quindi è vero che le dittature si preparano il terreno prima creando il nemico e poi fomentando la paura del suo arrivo, incoraggiando l’indifferenza e sostenendola, se vogliamo scongiurare nuovi regimi, nuove dittature, nuovi ventennî, è sulla sollecitudine e il riconoscimento dell’altro che dobbiamo fondare, definire e praticare il nostro antifascismo.

Il ricordo di queste sette vite stroncate ci insegna come contraddire la religione dell’individualismo che annulla le reti di relazioni e ci lascia isolati e deboli di fronte al potere che ci vuole cortigiani in cerca di un principe, di un boss, di un capitano a cui chiedere sopravvivenza e senso.
Ad un’idea di società più inclusiva, più variegata, più sollecita, questi Martiri hanno sacrificato la vita e sulla loro visione altruista è stata costruita la nostra Costituzione antifascista.

In definitiva la domanda che come Anpi dobbiamo farci è a chi parlare, di che cosa e come parlare.
Col presupposto che, mai come in questo momento, forse più ancora che cercare di risvegliare consapevolezza, dobbiamo noi tutti riconoscere quanto sia prioritario l’ascolto, perché i tanti che sono oppressi dal disagio del quotidiano fanno ancora più fatica a dedicarsi alla messa in pratica di ideali che, solo in tempi lunghi, potranno trasformarsi in opportunità. E tuttavia ci confortano i tanti giovani che pur nelle angustie di un futuro incerto e di un presente fatto di precarietà e sfruttamento, riescono a coltivare la passione civile e la partecipazione.

In conseguenza di tutte queste considerazioni, l’Anpi deve parlare a chi non sa che esiste una Costituzione e, in ogni occasione, rimarcare che, pur esistendo essa formalmente, resta largamente inapplicata: nell’economia, nella socialità, nelle relazioni internazionali; non deve stancarsi di spiegare qual’è il significato di quella Carta e perché è utile che esista e come la sua persistente disapplicazione porti alla fine della democrazia.
Dobbiamo saper dire che ancor prima del giudizio della Corte costituzionale, ce lo dicono la nostra educazione al rispetto della persona e della dignità, l’umanesimo connaturato al nostro essere italiani che i respingimenti sono contrari alla nostra Carta; la stessa che ci dice anche che l’economia che crea posti di lavoro, ma uccide con gli infortuni e con l’avvelenamento del territorio è la sua negazione, che l’impresa che riduce a gusci vuoti le città e a promotori finanziari i suoi residenti la trasgredisce ogni giorno.

A questa partecipazione che fa rete e risveglia la solidarietà dobbiamo tornare e rieducarci alla pietà per i tanti esseri umani che quotidianamente annegano nel Mediterraneo, rifiutare la paura dell’altro e l’indifferenza, l’egoismo, il cinismo, per far sì che le dittature che questi Martiri hanno contrastato, anche nelle nuove forme di oggi vengano sconfitte.

Gian Luigi Placella
Presidente della sezione ANPI “Sette Martiri”

Venezia, 3 agosto 2019


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Ringraziamo Nicola De Lorenzo Poz per le riprese e Antonio Beninati per il montaggio.


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