28 LUGLIO 1944
Il 26 luglio 1944, alle ore 9.05, un commando partigiano, agli ordini dell’Esecutivo Militare del Comitato di Liberazione Nazionale di Venezia, fece saltare con una carica di dinamite Ca’ Giustinian, sede del Comando Provinciale della Guardia Nazionale Repubblicana (G.N.R.) e di uffici di collegamento tedeschi.
In quel palazzo erano rintanati i più spietati capi fascisti, persecutori di coloro che si battevano per la libertà e l’indipendenza del nostro Paese. Da Ca’ Giustinian partivano gli ordini per i rastrellamenti, per le esecuzioni sommarie, per le spedizioni punitive, per la cattura degli ostaggi…
Il commando partigiano, esecutore dell’attentato, colpendo quell’obiettivo di guerra diede dimostrazione che la Resistenza era una realtà viva ed efficiente. Ai fascisti, impauriti e furenti, non rimane che rispondere con l’odio di parte, con la rappresaglia.
Che essa fosse perpetrata su tredici uomini da mesi rinchiusi in carcere per antifascismo, alcuni con moglie e figli, non aveva rilevanza alcuna. La rappresaglia si svolse in un clima di terrore.
Il capo della Provincia Pietro Cosmin, fascista di vecchia data, nella notte del 27 luglio convocò un Tribunale Straordinario di Guerra che fu concorde per condannare a morte i 13 detenuti politici che, come abbiamo precisato, erano da tempo incarcerati.
Essi, intanto, avrebbero pagato con la vita la loro avversione al fascismo.
Fu una simulazione di processo giudiziario, una tragica farsa messa in atto da carnefici in veste di giudici. Gli imputati non ebbero difensori.
In quella sentenza si legge:” Il Tribunale Straordinario, visti gli art. 435, 697, 698, 302, 56,… del Codice Penale ha condannato tutti gli imputati alla pena di morte mediante fucilazione alla schiena”.
I 13 condannati erano: Basso Attilio, Bertazzolo Stefano, Biancotto Francesco, D’Andrea Ernesto, Felisati Giovanni, Gressani Angelo, Gusso Enzo, Levorin Gustavo, Nardean venceslao, Momesso Violante, Peruch Amedeo, Tamai Giovanni, Tronco Giovanni. Tranne Felisati, erano tutti del Sandonatese. Non a caso. Si voleva in qualche modo dare una lezione che servisse di monito ad una zona particolarmente attiva nella Resistenza. San Donà di Piave, infatti, fu l’unica città del veneziano ad essere insignita di medaglia al valor militare per la Resistenza. Ebbe quella d’Argento.
Per decisione del Tribunale Straordinario la sentenza venne eseguita alle ore 5 del 28 luglio sulle macerie di Ca’ Giustinian, dove due giorni prima aveva avuto luogo l’azione partigiana.
I mesi passati in carcere fra interrogatori, torture e sevizie, non avevano fiaccato il coraggio morale di questi nostri compagni. Essi si avviarono al martirio con animo fermo. Giusti sul posto dell’esecuzione furono incatenati a gruppi di due o tre e su di essi aprirono il fuoco “a volontà” ufficiali e militi della G.N.R.
Il 30 luglio un comunicato della Prefettura, firmato da Pietro Cosmin, informava che era stata messa una taglia di un milione sugli autori dell’attentato. “Chiunque – vi si leggeva – darà utili informazioni per la loro cattura avrà il premio”.
Ma la Resistenza veneziana non ha avuto traditori.
Da allora la Brigata garibaldina operante in città venne chiamata “Brigata Biancotto”, in onore del più giovane dei martiri: aveva solo 18 anni. Dal suo nome Ivone Chinello, in quei giorni suo compagno di cella a Santa Maria Maggiore, prese il nome di battaglia “Cesco”, con cui sarà poi per sempre da tutti chiamato.
Ai Tredici Martiri venne intitolata la calle di Venezia dove furono assassinati ed una delle vie principali di San Donà, dove sono sepolti e commemorati ogni 28 luglio dai compagni sandonatesi e da quelli veneziani.